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giovedì 19 aprile 2012

Delega fiscale: dov'è finita l'imposta unica sul reddito d'impresa?

Il disegno di legge delega per la revisione del sistema fiscale avrebbe dovuto unificare il sistema di tassazione del reddito di imprese e professioni.
In effetti, lo schema approvato dal Consiglio dei ministri del 16/4 (che dovrebbe essere questo, mentre qui trovate il resoconto della seduta del CdM da sito del Governo) prevede all'art. 12 un allineamento della tassazione dei soggetti IRES e IRPEF, che sarebbero assoggettati ad un unico tributo (di cui circolava il nome IRI, Imposta sul Reddito Imprenditoriale). Si prevede però anche un regime speciale per i contribuenti minimi e forme di "opzionalità".
Dell'imposta unica avevo capito questo: il reddito di impresa prodotto e non distribuito è assoggettato ad IRI, si presume ad un'aliquota non molto diversa dall'attuale aliquota IRES (27,5%). Il reddito distribuito a proprietari o soci persone fisiche è tassato in base all'aliquota IRPEF personale del percipiente. Mi sono chiesto: e dove vanno a finire i regimi di tassazione dei redditi distribuiti da società di capitali che sono distinti per fattispecie, ovvero soci non qualificati persone fisiche, soci qualificati persone fisiche e soci società di capitali? Per non parlare delle srl tassate in regime di trasparenza fiscale, che possono ripartire il reddito tra soci e assoggettarlo ad IRPEF come se fossero società di persone. Con l'IRI si tassa il reddito distribuito sempre allo stesso modo?
La risposta forse l'ho trovata in un articolo del Sole 24 ore del 18/4 (basato su un'interpretazione da fonti non meglio precisate del concetto di opzionalità inserito nel testo del Ddl): secondo l'articolista, la nuova imposta unica non tocca il trattamento dei redditi distribuiti da srl e spa, ma soltanto quello dei soggetti IRPEF.  Quindi la montagna (unificazione dei regimi di tassazione del reddito d'impresa) partorisce un topolino (un nuovo regime di tassazione ad aliquota proporzionale dei redditi d'impresa prodotti e non distribuiti, che premia la ritenzione degli utili nel caso di soggetti IRPEF con aliquote elevate). Un'idea che già circolava in precedenti proposte di riforma fiscale. Che ora ha un effetto agevolativo rafforzato dall'ACE, che premia l'incremento del patrimonio netto anche a fronte di utili portati a riserva.
Ne ricavo due impressioni. La prima è che il Governo tecnico, in materia fiscale, non ha la possibilità di fare rivoluzioni. Il Ddl presentato ritocca, aggiusta, adatta, ma rispetto alle promesse non introduce nessuna innovazione radicale. Dal punto di vista di chi, come me, si interessa alla fiscalità come interferenza alla gestione finanziaria, noto un grande assente: la semplificazione. Dopo i nuovi gravami informativi anti-evasione a carico dei contribuenti (che commentavo qui), si aggiunge una nuova fattispecie di tassazione del reddito d'impresa. Non si abbassano le aliquote, in ossequio al principio di invarianza della pressione fiscale e del gettito aggregato. Non si unificano o semplificano i regimi. Non si interviene sul divario di pressione fiscale effettiva tra imprese grandi (o fiscalmente accorte), capaci di sfruttare la pianificazione fiscale internazionale o di gruppo,  imprese piccole o meno organizzate, forse nel presupposto che le seconde sistematicamente evadono. O meglio, per contrastare le manovre elusive delle prime, si mantengono spazi di discrezionalità nell'accertamento (il concetto di abuso di diritto) che consentono di minacciare i soggetti che si approfittano troppo delle tecniche di pianificazione fiscale, ad esempio alzando i prezzi di trasferimento delle merci o delle prestazioni acquistate da consociate estere.
Con questa riforma, la pressione fiscale effettiva non soltanto rimane troppo alta, ma rimane (come prima) impossibile da calcolare nel suo livello medio e nella distribuzione. I bilanci si riempiono di rettifiche fiscali e attività per imposte anticipate o recuperi di imposta attesi di valore e scadenza incerti. Fare un bilancio previsionale con questa fiscalità è un lavoro certosino, che spesso esce dai confini della computabilità.
Vedo sempre all'opera l'alleanza inconsapevole tra l'Amministrazione delle entrate e la cottage industry della consulenza amministrativa. La prima  vuole assicurare una viscosità del gettito, quindi non accetta revisioni normative che liberino leve di abbattimento del carico fiscale su un reddito che non cresce. Non si prende il rischio di scommettere su maggiori tasse da un reddito che cresce per effetto di aliquote più basse e più semplici da applicare. Le seconda, con il suo esercito di consulenti a vario titolo, si è adattata a questo ambiente cespuglioso e bizantino, nel quale il turismo fai da te è molto pericoloso. Ogni nuovo caso di esenzione o agevolazione, ogni nuovo adempimento o minaccia è una promessa di nuovo lavoro professionale. Spesso la promessa è ingannatrice, e magari il lavoro arriva, ma il cliente poi non lo paga perché fallisce. Ma anche loro, i partner professionali delle imprese, preferiscono l'uovo oggi della consulenza obbligatoria alla gallina domani della consulenza utile.
Per questo complesso di blocchi incrociati non è facile fare riforme fiscali. Per farle serve essere molto competenti in materia, e qui nessun problema perché nell'Agenzia delle entrate e nell'accademia/professione ci sono delle professionalità eccellenti. Però la competenza giuridica o di tecnica fiscale non basta. Occorrono degli ingegneri che calcolino i costi delle inefficienze di processo, e vadano a stanare e a risolvere i bizantinismi, aggiustando i parametri per controllare l'effetto redistributivo. Occorrono soprattutto dei governanti coraggiosi che ne sappiano quanto i tecnici, ma abbiano anche la forza per convincerli a cambiare, prendendosi il rischio. E vadano a spiegare il piano d'azione all'Unione Europea e agli investitori internazionali.
Non è il caso di questo Governo, al di là delle sue eccellenti intenzioni e capacità potenziali.
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