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martedì 24 maggio 2011

Crisi del mobile veneto e riflessioni di Fabio su credito e sviluppo industriale

Fabio Cutrera mi segnala un interessante reportage del Fatto Quotidiano sulla crisi che morde nel distretto del mobile tra Rovigo e Verona. Cito:

[...] Gli affari sono andati bene, per lui come per gli altri, in quella manciata di anni buoni in cui tanti “mastri falegnami” aprivano il laboratorio nel sottoscala di casa, chi poteva si faceva un piccolo capannone in giardino. Un’attività collettiva che oggi si sta sciogliendo come neve al sole. “[...] Abbiamo un magazzino pieno di merce stoccata ma mancano le commesse, vendiamo un pezzo ogni tanto. Nessuno di noi è attrezzato per fare la subfornitura di Ikea, siamo troppo poco strutturati”.
Ma la vera smoking gun per i piccoli produttori è la contrazione del volume di credito e l’inasprimento fiscale. Tradotto: l’inganno è delle banche e di chi riscuote le tasse. “Ci siamo indebitati molto, sbagliando. Ma oggi abbiamo enormi difficoltà di accesso al credito. Gli istituti guardano i risultati, e noi negli ultimi anni abbiamo bilanci da ortolani. Ho un capitale stimato di 800 mila euro in immobili, ho chiesto a Equitalia di rateizzare il debito non mi hanno ancora risposto”.
Ma sono anche altre le motivazioni che hanno liquefatto il polo del “mobile in stile” padovano, [...]. Ridotto all’osso dalla concorrenza dei cinesi e dalle multinazionali modello Ikea, spolpato dalla ridotta capacità di spesa delle famiglie [...] e da un mancato ammodernamento della produzione. Si arriva alla carenza di liquidità che impedisce di pagare regolarmente i lavoratori [...] “Molte aziende – denunciano alla Cgil – utilizzano la cassa integrazione come strumento per pagare abitualmente i dipendenti, integrando ogni mese con una piccola quota la cifra erogata dall’Inps”. [...]
Come nella più classica selezione darwiniana i più scaltri e quelli con le maggiori capacità di adattarsi al cambiamento hanno già aperto piccoli laboratori in Cina ed esportano molta parte della produzione lì. Tutti gli altri chiuderanno quando potranno farlo, dimezzando la forza della filiera. “Chiudere costa troppo soprattutto a livello fiscale, per ora non ce lo possiamo permettere, abbiamo troppi debiti”.
Fabio così commenta:
Prima di leggere tale articolo, il mese scorso, dopo tante riflessioni su come ci siamo arrivati così strutturalmente deboli, sul versante imprese, alla crisi, ho fatto autocritica e con il senno di poi, penso che la riforma del TUB del 1993 ha contribuito.
Da poco più che ragazzino salutai con favore, fortemente convinto, la riforma del TUB. Fino a quegli anni immediatamente dopo il 1994 (ci sono voluti un paio di anni perché la riforma trovasse effettiva applicazione nel mercato), di fatto come Confidi vedevamo imprese indebitate ma non troppo, che chiedevano piccoli fidi e finanziamenti per le mensilità aggiuntive, in quanto se chiedevano medio/lungo termine, venivano quasi sempre inviate al Mediocredito Lombardo (sto parlando chiaramente dell'esperienza di Brescia). Ciò avveniva sia se erano clienti del Credito Agrario Bresciano, della Banca San Paolo di Brescia, della Cariplo (proprietaria di M. Lombarda), ecc.
Il Mediocredito Lombardo sotto gli ex 500 milioni di lire storceva il naso. Sopra tale cifra l'istruttoria era complicata e o c'era una solidità patrimoniale o nulla. Per gli investimenti, anche di importi inferiori, ci pensava la Sabatini (le cambiali).
Quindi, con la riforma dicevo: "bene, quando le banche che quotidianamente operano con l'impresa e la conoscono potranno fare tutto, finalmente si apriranno veramente le porte del credito".
Con il senno di poi forse si è andati all'eccesso. Sono state finanziate troppe imprese strutturalmente deboli e ciò, per assurdo, non ha permesso alle imprese più solide e strutturate di crescere ulteriormente come quote di mercato. Certo abbiamo cavalcato la crescita economica ma tutto con la leva del debito. Abbiamo forse contribuito a creare un sistema imprenditoriale più fragile.
Sono d'accordo. Un sistema produttivo esuberante per vitalità, ma poco riflessivo, non è stato aiutato dal sistema finanziario a fare ordine, a investire con lungimiranza e spalle solide. Se è per questo, non è stato aiutato nemmeno dalla fiscalità, né dal regime degli incentivi pubblici, né dai consulenti. La genialità, il buon senso e la flessibilità hanno fatto sì che molte aziende fossero comunque ben gestite. C'è però un'ampia parte del sistema che ha seguito l'onda, è stato travolto dal riflusso e sopravvive finché può arrangiandosi.
Torno a insistere: questa parte del sistema Italia deve essere conosciuta meglio, aiutata ad attraversare la crisi con dignità e a uscirne, ripartendo, se ci sono possibilità di recupero, o chiudendo. Non è una città invisibile. L'ha segnata a dito S&P quando ha abbassato l'outlook del rating della Repubblica italiana, parlando di perdita di competitività e deficit commerciale crescente.
I portafogli delle banche, e dei confidi, sono pieni di crediti verso queste imprese. Come andranno a finire, le imprese e i loro debiti, e le banche che le hanno finanziate? Abbiamo il coraggio di sollevare la questione, non banalizziamola ad argomento tra i tanti della dialettica governo-opposizione. Su questa sfida ci giochiamo la tenuta dell'economia, la coesione sociale, il rinsavimento del confronto politico. Tutto. Stampa questo post

5 commenti:

Anonimo ha detto...

Caro Luca, condivido tutto quello che hai scritto. In effetti, il discorso parte da lontano ossia dalla rottura di un equilibrio fra produttori e lavoratori, trasformando i secondi in consumatori. Ciò ha determinato l'avvento da locuste, spacciato per modernizzazione, della grande distribuzione commerciale che ha travolto l'equilibrio cennato. Si dirà: i prezzi ora sono convenienti ma a quale costo? A costo di una regressione dei salari. Pertanto a prezzi calanti non e' corrisposto un aumento del benessere dei lavoratori (ops... consumatori, ecco il grande inganno). Ne e' conseguito il generale impoverimento di (quasi) tutti che non poteva non toccare il reticolo delle pmi italiane, certamente non in grado di essere competivitivi nella subfornitura a favore dei grandissimi commercianti, salvo piccole nicchie -foglie di fico.

Il danaro che continua a circolare si polarizza mentre prima era maggiormente distribuito fra i ceti "piccoli", siano stati lavoratori siano stati piccoli imprenditori.

Gli effetti sul sistema bancario possono essere dirompenti: qual e' la banca che si compiace di capannoni infungibili a garanzia? o di ville ipotecate vicino al capannone, non troppo prestigiose per il ricchissimo pretendente, e troppo costose per il cittadino comune?

Io penso, molto modestamente, che il governo dell'economia, dopo anni di deludente laissez faire, debba diventare il nuovo obiettivo della politica. Purtroppo la politica oggi e' fatta da mediocri, impreparati, non eletti ma nominati, e collusi da interessi particulari.

Insomma, scomodando marx, e' sempre piu' vero che l'economia e' la struttura, il resto e' sovrastruttura.

(Jaures)

Anonimo ha detto...

Caro Jaurès, fai un'analisi molto impegnativa. Non so quanto Marx condividerebbe la difesa che fai delle ragioni dei piccoli imprenditori, con argomenti molto "sovrastrutturali", ovvero giudizi di valore. Secondo me IKEA e Wal Mart non faranno piazza pulita del nostro sistema di imprese, però dobbiamo darci da fare di più per liberarlo di pesi inutili e rafforzarlo.

Anonimo ha detto...

la citazione e' provocatoria, caro Luca e neppure ho gli strumenti intellettuali per analisi approfondite.

Dico solo quel che vedo anch'io proveniendo da una terra di distretti. Ti faccio un esempio:

- storica fabbrica di ingranaggi e macchine utensili (1000 operai negli anni 70) --> in crisi ed in mano ad un magnate russo;

- fabbrica "gemmata" dalla prima (300 dipendenti) ---> venduta a un fondo indiano

- fabbrica di elettrodomestici (1.000 dipendenti) --> venduta prima ad un fondo estero --> crisi finanziaria --> salvata da una multinazionale.

Erano 3 fabbriche di imprenditori locali...

Jaures

Anonimo ha detto...

Tre esempi illuminanti! Che cosa hanno i nuovi acquirenti? soldi da investire (tutti e tre i casi); mercati di sbocco in crescita (russi e indiani); un modello strategico e organizzativo (indiani, fondo e multinazionale). Da noi i soldi fatti in azienda non erano abbastanza per crescere o sono usciti troppo presto. Molto spesso quello che fa uscire di scena i nostri imprenditori sono le funzioni di intelligence che mancano.
PS: intendevo dire che il Marx di Jaurès mi sembra parente stretto di quello di Peppone, niente a che vedere con quello di Pol Pot

Anonimo ha detto...

nel caso 3) penso sia stata l'irresistibile offerta finanziaria del Fondo nei confronti dei soci fondatori locali (tanto ha fatto un leverage buy out con indebitamento scaricato sulla societa' target). Ne e' discesa una crisi finanziaria acuta, che per fortuna ha visto il salvataggio di una industria multinazionale... finche dura.

Nel caso 2) penso anche qui un'offerta "importante" ai vecchi soci. Gestire un'impresa complessa, con dipendenti, sindacati.. quando si puo' monetizzare, sistemare i figli e vivere da pascia'...

Nel caso 1) impresa ultrasindacalizzata.. questi sono i risultati..passaggi di mano su passaggi di mano e ora il magnate russo che porta via tutto, pare. Ci sono vertenze e problemi ai cancelli.


ps - certo, un marx alla peppone (ma anche don camillo l'avrebbe pensata uguale mi sa...)

Jaures