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venerdì 9 giugno 2006

Innovazione tecnologica italian style. Un'idea balzana sui bilanci delle imprese individuali



Sono a Perugia, nella hall dell'albergo. Oggi mi vedo con i colleghi di Gepafin, la finanziaria della Regione Umbria, per il progetto confidi. Sono collegato in wireless, è la seconda volta che ci provo ed è davvero comodo. In certi paesi la copertura wireless gratuita è quasi ovunque, e uno può usare il PC al posto del cellulare, o nuovi cellulari con scheda di rete. In Italia la diffusione dell'innovazione procede a fiotti. Dal lato dell'offerta commerciale, si tende a mettere al primo posto quello che trova sbocco sul gigantesco mercato dei privati (pensiamo alla telefonia mobile). La connettività internet, penso di non sbagliare nel dirlo, è più cara in Italia che altrove, sia per i privati sia per le aziende. Non ci sono state rivoluzioni copernicane, tipo ADSL quasi gratis, per forzare i tempi di diffusione dell'uso della rete e creare un'infrastruttura. I margini dei provider (a cominciare da quelli dell'ex monopolista) sono considerati creature delicate, e ricevono cure e attenzioni. Con un po' di coraggio in più, si potrebbero incrementare i redditi riducendo i prezzi e puntando all'aumento drastico dei volumi, ma non è nello spirito nazionale: troppo affannoso, poco signorile. La pubblica amministrazione ha fatto qualcosa, ma niente di "visionario" che stravolgesse gli equilibri spontanei di un mercato poco dinamico.
Comunque, anche da noi la società si sta cablando. Però, che rabbia vedere quanti bravi informatici italiani ci sono, geniali e stimatissimi (basta vedere quanti nomi di casa si trovano sulle pagine dei progetti software open source), e quanta poca innovazione abbiamo trasferito in progetti di business e portato sul mercato internazionale. Sono più bravi a farlo gli americani, ma anche gli scandinavi (pensiamo a Skype), i francesi, gli indiani, i paesi dell'est Europa. Vabbé, non lamentiamoci, vuol dire che la missione del nostro popolo è un'altra.
Vivendo in università, mi sono accorto anche di un'altra possibile causa di questa situazione. Le nostre facoltà di Scienza dell'informazione, danno una formazione teorica rigorosa, ma un po' astratta. Un loro laureato triennale rischia di finire il primo livello di studi avendo studiato i teoremi della complessità computazionale, ma non sa cos'è un sistema ERP, o non conosce XML o altre tecnologie internet. Nella ricerca, i miei colleghi informatici "puri" hanno grande successo nei bandi europei, e producono una mole impressionante di pubblicazioni su riviste internazionali e di convegni. Solo una piccola parte del loro lavoro trova sbocco sul mercato, e riguarda di solito applicazioni ingegneristiche avanzate (visione, telecomunicazioni, automazione industriale, intelligenza artificiale). Penso che negli USA o in Finlandia non sia così.
Si è quindi aperta una distanza tra l'informatica scientifica e l'informatica gestionale. La seconda è una cosa che serve, ma piace poco a chi la sviluppa e a chi la usa, non sfrutta il volano di finanziamento dei fondi pubblici per la ricerca (che in Europa è potente, pensiamo ancora a Skype, che è partito con fondi europei), non attrae investimenti strategici.
Le cose più importanti, in Italia, le abbiamo fatte in presenza di forti sponsor istituzionali: pensiamo ai mercati telematici dei titoli di Stato, esportati in tutto il mondo da MTS, che hanno ricevuto un impulso decisivo dalla Banca d'Italia e dall'ABI. Anche nel campo dell'informatizzazione dei rapporti con il fisco, o con le camere di commercio, siamo competitivi. Morale: per indurci a innovare occorre una pressione normativa di qualche genere, a quel punto i fondi per investire si trovano perché ce li mette un soggetto istituzionale, e l'uso della tecnologia si diffonde perché è obbligatorio, o quasi. Poi, col tempo, si apprezzano i benefici intrinseci (pensiamo al passaggio al deposito in forma elettronica dei documenti presso il registro delle imprese).
A questo punto mi viene un'idea balzana: cerchiamo di convincere i provider istituzionali di servizi informatici a essere visionari. Ad esempio, perché non utilizzare l'infrastruttura di rete del Registro imprese per forme di comunicazione di natura volontaria? Perché un'impresa individuale, o una società di persone, che volesse darsi un'immagine di trasparenza, non potrebbe depositare il suo bilancio come una spa? Tecnicamente non ci sono impedimenti a farlo. Nell'ambito del progetto XBRL potremmo mettere a punto i formati elettronici dei bilanci in contabilità semplificata, e dare ai commercialisti e ai centri di servizi contabili gli strumenti per confezionare e inoltrare i documenti. Bisogna dare degli incentivi, ad esempio ridurre o azzerare i diritti di deposito o addirittura fare sconti sugli altri servizi obbligatori. I costi incrementali di elaborazione dati sarebbero contenuti (non penso che avremmo un'adesione di milioni, ma di decine di migliaia di aziende), e sarebbero più che compensati dai ricavi per richieste di visura dei bilanci fatte da banche, fornitori, ecc.
Proviamoci.

Luca

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